Essere caregiver: dolore ma anche condivisione
Quando a un famigliare la diagnosi nega la speranza, è come se scoppiasse una bomba in casa. Ma condividere l’esperienza può aiutare a lenire il dolore.
È uscito in questi giorni un libro italiano che merita di avere un’eco perché può supportare chi si trova in una dimensione di dolore. Attorno al libro è già nata una comunità, perché condividere le esperienze aiuta.
L’autrice narra un
caso personale: alla madre viene diagnosticata la SLA.
Lei è infermiera e fino a poco tempo prima la sua quotidianità era la sala
rianimazione di un ospedale pubblico. È stata quindi ancora più inaccettabile
la modalità con cui è stata comunicata alla madre la diagnosi: senza sensibilità, senza un filo di empatia e di
comprensione. Dopo attese logoranti di esami e referti, dopo la paura che
precede il colloquio, il “come” dovrebbe essere importante. Dovrebbe. Non si
tratta di illudere o mentire ma di far capire alle persone cosa avranno
davanti. Perché prima della malattia c’è
sempre la persona.
“La diagnosi è stata come se qualcuno avesse bussato alla porta, avessimo
aperto, e ci avessero buttato una bomba
a mano dentro casa”. Non si può pronunciare solo la parola “inguaribile”: il paziente ha bisogno di
gestire i sintomi e lo stato emotivo e con lui il suo nucleo famigliare.
La fase seguita alla diagnosi è stata quella dell’adattamento. Nel senso che bisogna adattarsi alla nuova vita, farsi pezzi di un puzzle. Si rivoluziona la casa, perché quelli che erano stati gli arredi e gli oggetti di sempre si sono trasformati in barriere architettoniche. A volte si chiede il part time a livello lavorativo, perché assistere richiede tanto, tanto tempo. E occorre riorganizzare il presente, anche il futuro in un certo senso, perché si ha bisogno che un futuro ci sia.
Questo strano futuro è la terza fase. Quando si assiste un famigliare terminale, si naviga a vista, saltano tutte le pianificazioni. Si sale su un’altalena che oscilla fra giornate decenti e giornate pessime. Non c’è nulla di più devastante di non sentirsi presi in carico. Fino a quando s’incontrano realtà speciali, realtà che uniscono la massima professionalità medica a un’umanità straordinaria. Esistono e sono gratuite.
La mamma dell’autrice è stata presa in carico da Hospice di Abbiategrasso
che fornisce cure palliative anche tramite assistenza domiciliare. Non è certamente l’unico caso in Italia ma chi ha a che fare con questa realtà in provincia di Milano riceve un supporto inimmaginabile, sotto ogni aspetto, come paziente e come nucleo famigliare.
L’autrice dapprima ha scelto di scrivere e di fotografare per sfogarsi, per rielaborare, per provare a mettere ordine e lasciare ricordi alla nipotina. Rivendicava il ruolo di figlia, ma quando sua madre ha perso la voce, lei è diventata la sua. Inizialmente si chiedeva come dirlo agli altri, come spiegare cosa era capitato.
Poi ha pensato che forse la sua esperienza potesse servire a qualcuno. Perché il ruolo di caregiver non è associato a chi soffre di SLA: si può assistere un famigliare affetto da tumore, una persona anziana non più autosufficiente, un parente che soffre di alzheimer. Così ha deciso di creare una comunità on line, convinta che parlarne, condividere le esperienze, renda il dolore più sopportabile.
La pagina Facebook Essere un Caregiver vuole essere un punto di incontro, di ritrovo. In cui mettere sul piatto dubbi e bisogni, in cui far circolare abbracci.
Un’ultima nota: poco prima della seconda presentazione del libro, la madre dell’autrice ha cessato di vivere. Questo il suo messaggio: “Ogni giorno ci sono persone che stanno combattendo una battaglia. Magari non lo sapete quando le incontrate. Siate gentili”.
“Mi manca la tua voce. Da figlia a caregiver, contro la SLA”
Stefania Piscopo
Ed. La Memoria del Mondo
15 euro, di cui parte finanziano l’Hospice di Abbiategrasso prenotabile on line su Amazon e IBS, disponibile nelle librerie Feltrinelli